
Smartphone, tablet, social, gaming: per le nuove generazioni la realtà digitale è tutto il loro mondo. Eppure, dietro la facilità con cui i ragazzi si muovono tra app e piattaforme, si nascondono rischi concreti per il loro benessere psicologico, fisico e relazionale. È ciò che emerge dal più recente rapporto dell’OCSE “How’s Life for Children in the Digital Age?“, che esplora luci e ombre dell’infanzia nell’era digitale. Lungi dal demonizzare la tecnologia, il documento sottolinea un punto cruciale: l’esposizione digitale precoce e continua può trasformarsi in una fonte di stress, disagio e vulnerabilità, se non gestita con attenzione.
Il termine “tecnostress” può sembrare tecnico, ma descrive situazioni ormai comuni: bambini e adolescenti che non riescono a staccarsi dai dispositivi, che mentono sul tempo passato online, che litigano con genitori o insegnanti per l’uso del telefono, o che si rifugiano nei social per evitare emozioni difficili.
Questo uso problematico della tecnologia non è solo questione di tempo: conta come e perché si usano gli strumenti digitali. E, ancora più importante, chi sono i ragazzi che ne fanno un uso disfunzionale. Il rapporto evidenzia come fattori preesistenti – bassa autostima, conflitti familiari, isolamento sociale – possano aumentare il rischio di sviluppare una dipendenza digitale e come la tecnologia può a sua volta amplificare questi problemi.
Il rapporto OCSE distingue tra diversi tipi di rischio online, noti come le “4 C”: contenuti inappropriati, contatti pericolosi, comportamenti scorretti e consumismo digitale. A questi si aggiungono aspetti trasversali come la protezione dei dati personali, la salute fisica e il benessere mentale.
Alcuni numeri sono impressionanti: il 36% degli adolescenti dichiara di essere rimasto turbato dopo aver visto contenuti inadeguati, il 42% ha ricevuto messaggi offensivi e il 53% ha avuto esperienze negative legate a contenuti discriminatori. Senza contare la crescente diffusione del cyberbullismo e il malessere per la condivisione non consensuale di informazioni personali.
Un altro tema delicato è quello della technoference, ossia l’interferenza della tecnologia nell’interazione genitore-figlio. Non sono solo i ragazzi a essere iperconnessi: anche gli adulti spesso faticano a “scollegarsi”. L’uso del telefono da parte dei genitori, soprattutto nei momenti condivisi, può ridurre la qualità del tempo passato insieme e ostacolare lo sviluppo del linguaggio nei più piccoli.
Se da un lato le famiglie sono spesso lasciate sole ad affrontare questi problemi, dall’altro non mancano proposte e iniziative. L’OCSE indica quattro aree strategiche per costruire un ambiente digitale più sicuro e sostenibile per i minori.
- Norme e regolamentazione: servono leggi più chiare e standard tecnici più elevati per proteggere i bambini, promuovendo servizi digitali “child-friendly” fin dalla progettazione. Piattaforme e app devono implementare strumenti efficaci per la protezione della privacy, la segnalazione di contenuti e il controllo dell’età.
- Educazione digitale: la scuola ha un ruolo centrale nel formare utenti consapevoli. Gli insegnanti, però, devono essere supportati con formazione adeguata, così da poter affrontare anche i rischi emotivi e relazionali dell’uso digitale.
- Supporto alle famiglie: i genitori hanno bisogno di strumenti pratici. Dalle linee guida sui tempi di esposizione agli schermi ai piani di utilizzo familiari, che stabiliscono regole condivise sull’uso dei dispositivi (inclusi momenti e spazi “off”), fino alla co-visione dei contenuti per favorire dialogo e fiducia.
- Voce ai ragazzi: non si possono scrivere politiche sui giovani senza ascoltarli. I ragazzi chiedono protezione, ma anche rispetto della loro autonomia e spazi in cui esprimersi.
Un errore comune è concentrarsi solo sul “quanto” tempo i ragazzi passano online. Ma la vera domanda è un’altra: che tipo di esperienza stanno vivendo? Un’ora di gioco collaborativo con gli amici o di editing video creativo non è la stessa cosa che scorrerepassivamente contenuti per due ore.
Per questo, secondo l’OCSE, le restrizioni più efficaci sono quelle sui contenuti, non sul cronometro. E per capire davvero l’impatto del digitale, servono più dati, raccolti con strumenti robusti e aggiornati, capaci di cogliere le sfumature e di coinvolgere i diretti interessati.
Non c’è una soluzione semplice al problema del tecnostress. Ma una cosa è chiara: serve un cambio di prospettiva.